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Relazioni & interventi

Convegno pastorale 2020

Vescovo Ivo Muser

Bressanone, Accademia Cusanus, 18 settembre 2020

 

 

Sulla Tua parola: darsi il tempo per…

 

Perché "darsi il tempo per…"?

"Sulla tua parola: darsi il tempo per…". Quando abbiamo deciso questo tema annuale nel Consiglio di Curia a gennaio, non avevamo idea di quanto sarebbe stato attuale solo poche settimane dopo. La nostra riflessione è stata: come Chiesa locale ci troviamo di fronte a molti profondi cambiamenti e quindi abbiamo bisogno di un momento di pausa. In mezzo a tutte le questioni importanti che sono attualmente all'ordine del giorno, non dovremmo concentrarci sull‘"ancora più avanti" e "ancora di più", ma andare in profondità, cercare il centro. Appunto, prendersi del tempo per ciò che è veramente importante.

Improvvisamente e inaspettatamente, il "prendersi tempo" ha acquisito un gusto completamente diverso. La pandemia da Covid-19 ci ha colto di sorpresa, tutto è crollato. Molti hanno lottato per la propria vita, o per la vita delle persone a loro affidate. Molti altri - la maggior parte di noi - sono stati costretti a ritirarsi dentro le loro quattro mura, nella più piccola cerchia della famiglia. Per alcuni è stato anche un difficile momento di solitudine.

Siamo chiamati a cercare nuovi modi per portare avanti le cose più necessarie, per incoraggiarci e rafforzarci a vicenda. Le famiglie, ma anche gli insegnanti possono raccontarvi quanto sia stata estenuante e lunga la giornata scolastica a casa. Anche come chiesa abbiamo cercato di sviluppare nuove forme di presenza e di interazione. Le chiese sono rimaste vuote, ma è stata anche l'ora della chiesa domestica. Il lockdown è stato una pausa forzata, ma anche un momento impegnativo che ci ha fatto sentire insicuri, pensieroso e stanchi.

Da allora, la nostra vita professionale e sociale, ma anche la nostra vita ecclesiale quotidiana è stata segnata da questa sfida. Siamo diventati insicuri: insicuri nella nostra interazione sociale, insicuri nelle nostre prospettive economiche e professionali, insicuri nel nostro futuro politico, insicuri anche nel nostro rapporto con la fede e con la Chiesa. Chi si aspettava che il numero limitato di posti nelle funzioni religiose sarebbe stato preso d'assalto dopo la fine del lockdown, si è sbagliato. Anch’io questo momento lo avevo immaginato in modo diverso e soprattutto augurato! Famiglie, giovani adulti, bambini, ma anche anziani finora fedeli: per troppi questo contatto si è provvisoriamente interrotto. Non è diventato più facile, ma ancora più complesso - e sorgono molte domande.

Darsi tempo, andare in profondità, prendersi del tempo per ciò che è essenziale. Da questa situazione tutto assume una nuova importanza. Potremmo ora cedere alla tentazione di tornare con tutte le nostre forze a una presunta normalità e allo stesso tempo recuperare il più possibile ciò che è andato perduto durante l'anno. Dopotutto non si tratta di questioni di poco conto: prendiamo ad esempio il nuovo percorso della cresima. In primavera, le commissioni ad hoc nelle unità pastorali avrebbero dovuto mettere in atto passi importanti. A seguito della pandemia questo lavoro preparatorio si è arenato o ha fatto solo lenti progressi. Naturalmente è un bene, che il nuovo percorso verso la cresima venga ripreso con slancio. Non fare nulla non è un'opzione. Ma anche l'azionismo a qualsiasi costo non ci porterà da nessuna parte. Sarebbe inutile cercare di recuperare il tempo perduto in qualche modo con un doppio carico di lavoro. Sarà molto più importante domandarci: qial è l’obiettivo del nuovo percorso della cresima? Cosa è essenziale, cosa viene prima, cosa costituisce la qualità del nostro lavoro? Questa domanda si pone in ogni ambito del nostro lavoro di Chiesa. Cosa sta nel mezzo, qual è il cuore che anima e muove tutto il nostro agire?

Il centro: il dio vulnerabile

Questo centro non può che essere Cristo - questa affermazione dalla mia bocca probabilmente non vi sorprenderà. Ma come si può capire esattamente questo? Sul poster del tema annuale c'è la croce di San Damiano. Rappresenta una svolta spirituale nella vita di San Francesco. Nella preghiera davanti a questa croce, Francesco ha fatto chiarezza sulla sua missione. Questa chiarezza si basa sulla conoscenza del Dio incarnato sulla croce, che può essere sperimentato in tutte le cose del creato e che ci incontra soprattutto nei poveri e nei sofferenti. Dio non appare nel vincitore trionfante, non nell'eroe forte, non come il beato estasiato. Dio si fa uomo in Gesù di Nazareth: impotente, attaccabile, vulnerabile. Solo così Egli è il vincitore, il Risorto, il Signore innalzato.

Cosa cambia quando guardiamo le nostre azioni da questa prospettiva? Allora non cercheremo Dio dove abbiamo le nostre certezze e le nostre sicurezze. Lo cercheremo dove siamo incerti e perplessi. Non lo troveremo dove siamo forti e invulnerabili, ma dove siamo deboli e vulnerabili. L'apostolo Paolo ha espresso tale mistero in questo modo: “Quando sono debole, è allora che sono forte.“ (2 Cor 12,10)

Essere deboli, essere vulnerabili, essere attaccabili: tutti questi non sono valori in sé. Non sono cose che dovremmo cercare. Ciò che conta è la conoscenza, sia di Dio che di me stesso: dove penso di essere forte e infallibile, lì commetto lo sbaglio maggiore davanti a Dio e all'uomo. È qui che metto la mia fiducia in me stesso, faccio di me stesso un idolo, e alla fine non ho bisogno di nessun altro se non di me stesso. Nella mia presunta forza divento allora uno che agisce in modo prepotente; ferendo invece di guarire; ferendo invece di confortare. Ma là dove mi considero povero, debole, vulnerabile, Dio si mostra come Colui che consola e risolleva l'uomo. Come uno che benda e cura le ferite - e in questo si rende vulnerabile. Dove riconosco la mia vulnerabilità, mi apro all'azione salvifica di Dio, mi libero da me stesso per essere riempito da Dio. Se so che la mia vulnerabilità è al sicuro in Dio, allora non ho bisogno di proteggermi e posso operare in modo risanatore per gli altri. Il prendersi tempo dovrebbe affinare la nostra visione del Dio vulnerabile e salvifico, in modo che noi stessi nella nostra fragilità possiamo diventare salvezza per gli altri.

Ritiro nell‘esoterismo o spiritualità radicata?

Quando parliamo in tal modo del prendersi tempo, è anche necessario sgombrare il campo da alcuni malintesi. Ci sono molte voci e offerte oggi che vogliono guidare le persone a trovare se stesse. "Prendetevi del tempo - per voi stessi!" Esiste un vero e proprio mercato di offerte, spesso provenienti dal campo dell'esoterismo. Questo "mercato dell'aiuto alla vita", che mira all'autorealizzazione e all'autoaffermazione, non si trova da qualche parte al di fuori della nostra comunità ecclesiale, ma aiuta a plasmare la vita e la fede di molti cristiani. Il darsi tempo può anche degenerare in un girotondo su se stessi, che crea dipendenze e non arriva mai alla fine. Una tale pausa autoreferenziale è un pericolo anche per noi come Chiesa, quando parliamo sì di Dio, ma ci riferiamo solo a noi stessi, ai nostri desideri e alle nostre idee; se citiamo il Vangelo, ma solo per assecondare noi e l'atteggiamento di vita del nostro tempo. Allora ne scaturiranno un "Gesù softy" e una religione del benessere che oggi è molto diffusa! Anche nelle nostre funzioni religiose dobbiamo chiederci: si tratta di Dio, o si tratta più di noi? Dio è davvero nel mezzo con la sua parola e il suo sacramento, con il suo "servizio a noi" e con il nostro "servizio per lui"? Anche la più bella liturgia esteriore - e questo pericolo esiste in ogni forma di celebrazione - può essere interiormente svuotata di Dio e servire solo la nostra messa in scena!

La spiritualità intesa in modo errato induce le persone a parlare di Dio, ma alla fine a cercare se stessi e a mettersi al centro. Persino parlare di Dio incarnato e vulnerabile può essere una scusa per non affrontare il mondo e rimanere intrappolati in un'illusione di interiorità. Questo modo di prendersi tempo porta alla fine a una passività paralizzante e all'alienazione dal mondo. Il filosofo ebreo Martin Buber, invece, ha giustamente affermato: "È solo nel tu che l'uomo diventa l'io". E tale affermazione arriva al cuore della comprensione biblica di Dio e degli esseri umani.

Ciò di cui abbiamo urgente bisogno oggi è una spiritualità radicata che ci colleghi qui e ora con il creato e con i nostri simili. Cercare e trovare Dio in tutte le cose - direbbe Ignazio di Loyola. Non senza motivo papa Francesco ha proclamato lo scorso maggio l’anno della "Laudato Sì". Con esso vuole incoraggiarci come Chiesa a sentire il grido delle persone ferite e del creato che soffre. Questo passaggio dall'indifferenza allo sgomento, dal distogliere lo sguardo alla condivisione è la pietra di paragone per capire se siamo seri nel nostro parlare dell'Incarnazione di Dio. Papa Francesco ce lo ha più volte ricordato: ...che questo orientamento verso l'altro è il cuore stesso della missione cristiana. I Padri della Chiesa riassumono così il mistero della persona di Gesù e quindi il mistero dell'Incarnazione di Dio: "Solo ciò che è accettato è anche riscattato".

Non dobbiamo ruotare intorno a noi stessi nella nostra cura pastorale. Pausa cristiana significa imitare Dio che si identifica con la creazione sofferente. La ricerca delle nostre fonti spirituali deve sempre essere una svolta verso la creazione ferita e l'essere umano sofferente allo stesso tempo. Cristo sta dalla parte dei feriti e dice: "Tutto quello che avete fatto per il più piccolo dei miei fratelli e sorelle, l'avete fatto per me" (cfr Mt 25, 31ss). Il fuoco con cui noi, come individui e come comunità ecclesiale, ci schieriamo con il creato sofferente è il segno vivente che siamo stati presi dallo spirito di Cristo, dallo spirito dell'amore, e che ci lasciamo contagiare da lui. Qui, al più tardi, diventa chiaro che la fede cristiana, che si riferisce a Gesù di Nazareth incarnato, crocifisso e risorto, non è davvero una religione del wellness!

 

 

Pastorale della salute e del lutto

L'inadeguatezza di un'interiorità astratta e disincarnata era particolarmente evidente nel difficile momento del lockdown totale, quando i malati e i moribondi non potevano più essere visitati o potevano essere visitati solo in misura molto limitata, quando la vicinanza fisica alle persone in lutto non era possibile e i funerali potevano aver luogo solo nella stretta cerchia. In nessun altro luogo del Vangelo si trova Gesù così spesso come tra i malati, gli afflitti, i feriti e le persone in lutto.

Già da tempo assistiamo a una privatizzazione strisciante e a una sempre maggiore mancanza di parole di fronte alla malattia e alla morte. La pandemia da coronavirus ha mostrato senza pietà cosa succede quando nella malattia e nel lutto si perde la rete della vicinanza umana. Ci ha mostrato l'urgenza di una nuova pastorale per la salute e il lutto. I nostri sacerdoti continuano a fare un lavoro importante in tal senso. Non parliamo mai abbastanza di questa pastorale concreta e silenziosa, che non fa notizia. La cura pastorale dei malati, degli anziani, dei moribondi, delle persone in lutto non può e non deve essere delegata al solo parroco. Deve essere la preoccupazione di tutta la comunità parrocchiale. Nel Convegno di ottobre, il giorno 23, approfondiremo questo importante aspetto della vita parrocchiale e mostreremo modelli per la pratica quotidiana.

Spero che questa importante tematica sia ripresa dai consigli pastorali parrocchiali e dai team pastorali delle parrocchie e portata avanti da molte persone volonterose. Essere vicini a persone malate, anziane e in lutto è uno dei modi più concreti per vivere una spiritualità radicata nella sequela di Gesù.

"Innehalten - darsi tempo per..." Il significato si esprime nell'atteggiamento del "per". Il nostro darsi tempo non deve essere un mettersi in mostra mentre il mondo va avanti. La sofferenza delle persone, la loro solitudine, la loro vulnerabilità non aspettano fino a quando noi siamo interiormente pronti e attrezzati. Darsi tempo per Cristo significa darsi tempo per la persona che soffre; prendersi tempo per le persone vulnerabili significa prendersi tempo per Cristo stesso.

L'anno liturgico

Permettetemi ora di evidenziare alcuni altri punti sui quali potrebbe valere la pena di fermarsi, di darsi tempo, di andare in profondità. Come primo punto vorrei sottolineare la celebrazione dell'anno liturgico.

La celebrazione dell‘anno liturgico, il cammino con i temi, i testi, le occasioni, i tempi, i segni e gli stati d‘animo che l'anno liturgico ci presenta, sono il terreno fertile sul quale noi facciamo tutto il resto. Qui, anno dopo anno, portiamo con noi i misteri della storia della salvezza e li lasciamo diventare parte della nostra vita, con i suoi alti e bassi. Prima di guardare alle sfide e ai temi particolari del nostro tempo, "darsi tempo" può significare mettere al centro dell'anno liturgico il semplice ascolto della Parola di Dio. Abbiamo bisogno di un cuore docile (cfr. 1Re 3,9) per impegnarci nella Buona Novella che la liturgia della Chiesa ci proclama giorno dopo giorno, domenica dopo domenica, festività dopo festività. Non c'è modo migliore per entrare in contatto con il mistero di Cristo che ascoltare le Sacre Scritture. I tre anni di lettura della liturgia sono un alimento sano e sostanzioso per la vita spirituale nella sequela di Gesù e allo stesso tempo uno dei migliori punti di riferimento per la pastorale concreta.

Quando noi attraversiamo l'anno liturgico ascoltando la Parola di Dio, ci si presenta anche l'occasione per entrare in contatto con altre persone. L'anno liturgico con i suoi temi, gli anniversari, le feste e le tradizioni ci aiuta a incontrare le persone più diverse nelle situazioni più diverse. In questo modo l'anno liturgico ci offre in modo semplice e diretto la possibilità di praticare l'ascolto. Ascoltare la Parola di Dio e ascoltare le persone. Nell'ascoltare mettiamo da parte le nostre certezze. Nell'ascolto ci rendiamo attaccabili e vulnerabili. Nell'ascolto, il cambiamento può avvenire dentro di noi: Ecco perché ogni giorno gli ebrei credenti pregano: “Ascolta Israele" (Deuteronomio 6,4). Sant'Agostino e con lui diversi altri Padri della Chiesa dicono di Maria: "Prima ancora di concepire nel suo corpo, ha concepito nel suo orecchio. La famosa Regola di San Benedetto inizia con la parola: "Ausculta - Ascolta".

La celebrazione consapevole dell'anno liturgico è qualcosa che vorrei raccomandare a tutti noi in questo "anno del darsi tempo per". Considero l'anno liturgico il miglior esercizio spirituale per ogni comunità parrocchiale! È qui che la pastorale è alimentata da continuità, resistenza, profondità, rete permanente. Con l'accento sull'anno liturgico incoraggio anche verso una pastorale puntuale e adeguata. Non sono gli eventi e lo straordinario che ci modellano, ma il cammino concreto di un percorso spirituale - non da soli, ma con LUI e nella comunità della sua Chiesa.

Famiglia

L’ascolto è ciò che mi auguro di cuore anche in ogni circostanza in cui incontriamo le famiglie. Abbiamo tutti un'esperienza familiare, siamo tutti modellati dalla famiglia da cui proveniamo, incontriamo le famiglie in ogni fase della nostra vita quotidiana. Come parrocchia incontriamo famiglie che festeggiano con noi, che ci chiedono i sacramenti e i sacramentali, che si preparano con noi a tappe importanti della vita. Dal battesimo alla sepoltura, accompagniamo le persone nel loro viaggio attraverso la vita. Mi sta molto a cuore che proprio qui, dove accompagniamo le persone nella loro ricerca di Dio, ci lasciamo guidare dalla visione della vulnerabilità del Dio incarnato.

Sempre più spesso siamo tentati di scaricare sulle famiglie la responsabilità della vulnerabilità e della mortificazione delle parrocchie: se le famiglie facessero il loro dovere, allora andrebbe tutto bene e la messa tornerebbe affollata come si deve! Vedete come diventa facile offendere le famiglie, perché scarichiamo su di loro le nostre speranze non realizzate. Non possiamo permetterci un atteggiamento del "tutto o niente" nei confronti delle famiglie.

Cerchiamo di cambiare il punto di vista. Non siamo stati mandati a giudicare. Siamo inviati a riconoscere e a portare alla luce la presenza dell'amore di Dio nella vulnerabilità delle biografie umane. Possiamo e dobbiamo dare voce al Cristo incarnato che si è reso vulnerabile per noi e che ci accetta come persone vulnerabili. Sono sempre colpito dalla parola con cui la Lettera agli Ebrei esprime il mistero di Cristo: “Non abbiamo un sommo sacerdote che non possa simpatizzare con noi nelle nostre debolezze, poiché egli è stato tentato come noi in ogni cosa, senza commettere peccato.“ (Ebrei 4,15).

Il nostro incontro con le famiglie può essere accompagnato dalla certezza che Dio sta già agendo in loro. Impariamo a guardare insieme il piccolo granello di senape della fede che si può trovare anche in mezzo a travagli e incertezze. Dichiariamoci in modo chiaro e inequivocabile per il matrimonio e la famiglia! Questo non è un progetto di vita qualsiasi, uno tra gli altri. Questo "piano di vita" sorregge la società e la chiesa. Impariamo a vedere l'importanza e il ruolo inestimabile delle famiglie. La forza della famiglia si mostra soprattutto nell'affrontare la vulnerabilità. Pensiamo solo alla crisi da Covid-19 e a tutto ciò che le famiglie hanno già assicurato e sopportato sin qui. Questo dovrebbe darci motivo di gioia, perché dove le persone si sostengono l'un l'altra nell'amore, Dio è presente, anche se non sempre è esplicitamente menzionato. Incontriamoci con questa gioia per la presenza di Dio in mezzo alla vulnerabilità umana.

Giovani

Anche nella pastorale giovanile, la visione dell'incarnazione di Dio nella vulnerabilità e nella debolezza può aiutarci. La pastorale giovanile è una delle sfide centrali per le nostre parrocchie. L'innalzamento dell'età della Cresima e il nuovo percorso verso il sacramento ci hanno reso consapevoli delle debolezze con cui siamo confrontati. Spesso sento dire che non ci sono abbastanza persone che potrebbero lavorare con i giovani. "Io stesso sono così insicuro della mia fede - cosa posso dire quando i giovani vengono con le loro domande critiche?“ L'ho sentito in molte conversazioni. Vorrei qui esprimere il mio incoraggiamento: Lasciamoci coinvolgere nella fede come ricerca tenera e vulnerabile di Dio; lasciamo che i giovani ci interroghino e ci mettano alla prova.

Non si tratta di una testimonianza della nostra stessa perfezione, ma di una testimonianza della misericordia di Dio che opera attraverso persone deboli e vulnerabili. I bambini e i giovani non hanno bisogno di figure onnipotenti di padre, madre, insegnante o sacerdote, ma di testimoni credibili! Persone che chiedono e cercano, che li assecondano e li prendono sul serio. Non bisogna essere "pronti" e "perfetti" per questo, anzi. I giovani hanno bisogno di persone che li accompagnino. Non eroi infallibili, ma compagni di vulnerabilità. Persone che li accettano e vedono il bene che c'è in loro; che non pretendono da loro stessi o dagli altri una perfezione impossibile, ma sono pronte a ricominciare sempre di nuovo l'uno con l'altro. L'immagine biblica più comune per esprimere ciò che significa "credere" è l'immagine del Cammino. Siamo ancora tutti in cammino e non abbiamo ancora raggiunto il nostro obiettivo! C'è solo una cosa che noi, come persone che accompagnano, non dobbiamo fare: pretendere da bambini e giovani qualcosa che non percepiscono in noi stessi. Penso che sia molto importante parlare ai bambini e ai giovani del nostro cammino di fede e raccontare loro cosa significa la fede per noi - anche nella nostra vulnerabilità.

Nuove linee guida per la liturgia

Permettetemi ora di aprire una nuova area tematica in cui il darsi tempo può diventare fruttuosa. A Pentecoste, dopo lunghe discussioni negli organismi diocesani, ho disposto l’entrata in vigore delle nuove linee guida per la liturgia nelle unità pastorali. È positivo che l'inizio dell'attuazione di queste linee guida coincida con il tema annuale del darsi tempo. Prendiamoci il tempo di capire il tema e di approfondirlo. Con le nuove linee guida, possiamo percorrere insieme un cammino di fede, anche se non possiamo rispondere a tutte le domande in una volta sola.

Viviamo in una situazione in cui non ci possono essere soluzioni semplici e senza intoppi per alcune questioni importanti. Tali soluzioni sono seducenti, ma in ultima analisi ideologiche. Fin dall'inizio della Chiesa, il giorno del Signore, la comunità del Signore e la comunione sono stati inseparabili. Se oggi non è più possibile riunire la comunità del Signore davanti all‘eucarestia ogni domenica in ogni parrocchia, allora si produce una tensione che non può essere semplicemente risolta in una direzione o nell'altra. Non possiamo rinunciare a un aspetto importante a favore dell'altro o rimanere invischiati in una disputa su cosa conti di più, comunione o comunità: sarebbe fare violenza al tema e alle persone. Ciò che conta oggi è piuttosto accettare la nostra vulnerabilità. Questo include il fatto che il nostro ideale di chiesa non può essere realizzato completamente e senza contraddizioni. Fa parte della nostra situazione attuale il non poter offrire una soluzione soddisfacente per tutti i credenti e per tutte le comunità parrocchiali.

Nelle linee guida per la liturgia, abbiamo cercato di dare spazio a tutte e tre le preoccupazioni, nella consapevolezza che nella situazione attuale non ci sarà una soluzione agevole. Stiamo cercando di rafforzare il giorno del Signore fissando un orario di celebrazione consueto in ogni parrocchia. Stiamo cercando di rafforzare la comunione individuando un luogo in ogni unità pastorale dove l'Eucaristia venga celebrata in modo stabile. Cerchiamo di rafforzare la comunità dei fedeli dando modo all’assemblea di riunirsi in ogni parrocchia – secondo le possibilità per l'Eucaristia, per la celebrazione della Parola di Dio, per la Liturgia delle Ore, per l'adorazione eucaristica, per una funzione devozionale. Anche se ciò non produce una soluzione priva di contraddizioni, si apre tuttavia uno spazio nella diversità delle opzioni, di per sé attaccabili, in cui le persone possono percorrere un cammino di fede nella gioia e nella speranza. Grazie all'aiuto di Dio, confidiamo di poter essere forti seppure con tutti i limiti e le debolezze di ciascuno.

Uno sguardo ai cosiddetti Paesi di missione può aiutarci qui ad ampliare la nostra visione e allo stesso tempo a orientarla verso l'essenziale. La necessità di sopravvivere come comunità con pochissimi sacerdoti in grandi aree è infinitamente maggiore dei problemi che ci lamentiamo alle nostre latitudini. Eppure si dimostra che le comunità dei fedeli possono crescere dove le persone fanno del loro meglio e gestiscono la pastorale in responsabilità comune.

Team pastorali

La responsabilità comune dei sacerdoti e di tutti i battezzati è evidente anche nella nostra diocesi nei team pastorali. La recente Istruzione della Congregazione per il clero “La conversione pastorale della comunità parrocchiale al servizio della missione evangelizzatrice della Chiesa“ ha suscitato un certo scalpore nel mondo di lingua tedesca - e per quanto ho notato solo lì.

A questo punto cito me stesso, perché questa visione equilibrata delle cose è per me importante per una riflessione sul piano teologico-pastorale, che ci aiuta anche a percorrere una strada responsabile e comune - nella nostra diocesi e sempre in unione con la Chiesa universale: "Il tempo del parroco e del sacerdote come unico e solo responsabile della liturgia, dell'annuncio, della carità, della cura pastorale, della catechesi e dell'amministrazione è finito. E con convinzione aggiungo: grazie a Dio è finito! Il parroco non deve fare tutto da solo; non deve essere in grado di fare tutto; non deve capire tutto; non deve avere una risposta per tutto e non è il padrone della fede degli altri. La speciale responsabilità che un parroco ha in virtù della sua consacrazione non deve essere rappresentata così unilateralmente da diventare la sua unica responsabilità. Perché allora tutte le altre forme di corresponsabilità entreranno in competizione con il ministero nella Chiesa, e non saranno più viste e apprezzate nella loro dimensione operata dallo Spirito Santo. Al contrario, però – nel vero senso del Concilio Vaticano II - anche il sacerdozio comune di tutti i fedeli non deve essere compreso e assolutizzato in modo tale che si pensi: non c'è altro e non c’è bisogno di altro. La responsabilità sacramentale che viene trasferita dalla consacrazione era superflua e poteva essere sostituita da altri doni. Questo deve poi essere dimostrato anche nelle strutture pastorali. Ancora una volta in modo diverso: il Papa non è la Chiesa; il vescovo non è la diocesi; il parroco non è la parrocchia. Ma la Chiesa nel suo insieme, la diocesi e una comunità parrocchiale hanno bisogno - per essere e rimanere la Chiesa di Gesù Cristo - del servizio molto specifico dell'unità, che ha il suo fondamento nel sacramento dell‘ordinazione. Questo dimostra anche che non possiamo fare "la nostra chiesa", ma vogliamo rimanere "la sua chiesa"" (Sonntagsblatt 9 agosto 2020).

Oggi vediamo come i ruoli dei sacerdoti e dei laici stanno cambiando sotto la pressione della realtà. Questo provoca insicurezze e paure. Da questa vulnerabilità nasce la tentazione di definire i ruoli nella concorrenza reciproca e nella polarizzazione. Uno sguardo onesto ai nostri limiti ci aiuta molto. I team pastorali non sono una panacea che ha come effetto il ritorno a vecchie capacità. Si tratta piuttosto di un modesto tentativo di andare avanti con i mezzi e le risorse di cui disponiamo oggi. Non è la soluzione perfetta, ma è un bel passo avanti che possiamo fare oggi.

Sono convinto che stiamo intraprendendo un buon cammino qui nella nostra diocesi, anche se non è chiaro in tutti i punti dove questo ci porterà e come questo possa essere interpretato sul piano dogmatico e del diritto. Questa chiarezza non ci viene data oggi. Ma non possiamo e non dobbiamo fermarci qui. Ma possiamo fermarci, prenderci il tempo necessario, ascoltare e guardare: forse col tempo, attraverso i nostri timidi e imperfetti tentativi, diventerà visibile ciò che lo spirito di Dio vuole operare in mezzo a noi. Possiamo essere certi che Dio opera proprio dove noi stessi siamo insicuri, vulnerabili e deboli. Chiedo questo cammino comune, in cui sacerdoti e laici pensino e parlino bene l'uno dell'altro, senza polemiche, senza attribuzione di colpe e senza lotte di potere!

Formazione

Un penultimo punto. Uno strumento importante a disposizione nel nostro cammino per darsi tempo è l'educazione, la formazione, che ha sempre a che fare con l'evasione dalla vita quotidiana, il prendere tempo e riflettere sul nostro percorso. Formazione significa sempre anche comunità e scambio con gli altri e con chi la pensa diversamente.

La pandemia da coronavirus ci ha mostrato cosa manca quando l'istruzione può essere fatta solo a distanza. Il lavoro educativo è sempre un lavoro di relazione; questo vale per la scuola, la catechesi e anche per la formazione degli adulti. Abbiamo imparato molto sulle possibilità e le opportunità della comunicazione digitale nel nostro lavoro educativo attraverso la crisi da Covid. Ma allo stesso tempo siamo diventati ancora più consapevoli di quanto sia e rimarrà importante lo scambio da persona a persona. Qui il lavoro che i nostri numerosi insegnanti di religione svolgono nelle scuole è inestimabile. L'educazione religiosa e qualsiasi altra forma di confronto sulle questioni di fede e di significato richiedono un rapporto vivo e uno scambio vivace e personale.

Anche il Percorso diocesano di formazione, che abbiamo avviato un anno fa, non ha potuto iniziare come previsto a causa della pandemia. La grande maggioranza degli eventi educativi ha dovuto essere annullata. La formazione deve rimanere una componente centrale del nostro lavoro. Ci aiuta ad uscire dai sentieri abituali, ad allargare i nostri orizzonti e a promuovere lo scambio di esperienze. Per questo vi incoraggio a riprendere il filo del Percorso diocesano di formazione e a prenderlo nelle vostre mani. Il nostro “prendersi tempo per…“ ha bisogno di sostanza - e questa ce la può dare la formazione.

Quest'anno il tema dell'educazione è segnato da un addio e da un nuovo inizio. Diamo l'addio al Katholisches Bildungswerk, che sarà sciolto come associazione il 31 dicembre e cesserà la sua attività. I suoi compiti e i suoi programmi nel lavoro formativo decentralizzato saranno portati avanti dall'Accademia Cusanus.

Da tempo si discuteva di riunire il lavoro educativo centrale e decentrato della diocesi in un'unica istituzione per riunire le risorse e sfruttare al meglio le sinergie. Per vari motivi questo cambiamento è arrivato molto rapidamente e forse inaspettatamente. Proprio per questo motivo è importante per me esprimere la mia gratitudine per il lavoro del Katholisches Bildungswerk. In rappresentanza di tutti coloro che hanno segnato l‘attività del Bildungswerk nel corso di molti anni, vorrei ringraziare Hannes Rechenmacher e il suo attuale team. Auguro alla direttrice dell'Accademia Cusanus, la signora Patrizia Major Schwienbacher, un buon lavoro nel continuare questo cammino formativo decentralizzato nella nostra diocesi. Vorrei raccomandare alle comunità parrocchiali di investire con convinzione nel lavoro formativo e di lasciarsi sostenere dall'Accademia Cusanus.

Infine una domanda per me molto impegnativa: Crediamo ancora nel paradiso?                                                                                                                                                                     

L'epidemia del virus ci ha mostrato chiaramente la nostra vulnerabilità, debolezza e mortalità e ha messo in discussione molte certezze su cui abbiamo costruito nella nostra vita quotidiana, nei nostri piani e progetti, nell'economia e in molti altri settori. Questa pandemia può anche essere un campanello d'allarme in un tempo fortemente influenzato dalle idee di questo mondo. Pensiamo a vari paradisi sulla terra, paradisi delle vacanze, paradisi del surf, paradisi dello shopping, paradisi fiscali e ancora e ancora, dove la gente cerca la realizzazione dei propri desideri. Oggi, le persone spesso vivono e lavorano duramente, senza sosta e instancabilmente per arrivare a questi paradisi terreni. Anche la nostra cura pastorale, sì, la nostra comprensione di Dio e degli esseri umani sono spesso oggi molto orientati verso questo mondo. Tutto diverso per Paolo: Non conformatevi alla mentalità di questo secolo, ma trasformatevi rinnovando la vostra mente, per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto.“ (Rom 12,2)

Questo "rinnovamento del pensiero" è possibile solo se smettiamo di fissarci su questo mondo, atteggiamento oggi prevalente, per allargarci alla prospettiva ultraterrena del cielo, in modo che la vita nella sua interezza possa entrare in gioco. Il paradiso non si può fare, appartiene a Dio! Il cammino in quella direzione è caratterizzato da una vita moderata, rinunciando alle tendenze egoistiche, evitando azioni autodistruttive e la distruzione delle relazioni e delle basi della vita degli altri.

Anche la salute non è il bene più alto. Il bene supremo è il Dio di Gesù Cristo! E anche la morte ha solo la penultima parola. Dio stesso ha l'ultima parola. La sua ultima parola si chiama resurrezione, vita nella perfezione, vita eterna, cielo, Pasqua. Come esseri mortali e fragili, possiamo imparare ad accettare i nostri limiti nella fede e ad affidare la nostra impotenza al Dio della vita.

Vale la pena di fermarsi un momento e di approfondire la questione in modo più personale, ma anche come comunità ecclesiale: Crediamo ancora nel cielo, non come metafora, ma come quella realtà che è Dio stesso? Proclamiamo ancora il cielo abbastanza, non un cielo in terra, bensì “le cose che occhio non vide, e che orecchio non udì, e che mai salirono nel cuore dell'uomo, sono quelle che Dio ha preparate per coloro che lo amano“ (1 Cor 2, 9)?

In tutti i nostri sforzi pastorali, è sufficientemente chiaro che la Pasqua senza il Venerdì Santo non esiste e che senza la croce il messaggio cristiano della vita diventa debole, vuoto e perfino ideologico?

Incoraggio tutti a modellare di più il nostro impegno pastorale attraverso la fede nel cielo, perché è proprio questa prospettiva che allevia il nostro essere e il nostro fare e ci rende più liberi, più rilassati e più gioiosi. Non possiamo e non dobbiamo riscattare il nostro mondo! La salvezza viene da Dio, non da noi. Il desiderio di un paradiso terrestre si spezzerà al più tardi nelle nostre tombe. La fede nel cielo ci fa sospirare di sollievo. Questa fede ci rafforza, affinché possiamo testimoniare la vita in un mondo mortale, vulnerabile, incompiuto, in mezzo a una creazione che “fino a ora geme ed è in travaglio“ (Rom 8,22).

Ringraziamenti                                                                                                  

Caro Vicario generale Eugen, cari confratelli nel ministero sacerdotale e diaconale, cari religiosi, care collaboratrici e collaboratori nei vari ambiti della pastorale, vi invito a prendervi del tempo, a riflettere e a proseguire insieme sul cammino – guidati dalla Parola di Dio e anche uniti tra noi attraverso un dialogo onesto, aperto e costruttivo.

Il mio ringraziamento speciale va a tutti coloro che hanno portato a termine un incarico o un servizio e lo hanno ceduto ad altri all'inizio di questo nuovo anno di lavoro. L'elenco degli avvicendamenti è molto lungo quest'anno. Dietro la lista ci sono persone concrete, preoccupazioni, necessità, e proprio quando si tratta di avvicendamenti di personale anche nella nostra diocesi sperimentiamo un bisogno e una vulnerabilità sempre maggiori. Grazie di cuore per la vostra disponibilità a sopportare insieme gli sforzi, la fatica e le domande che attendono risposta. Esprimo il mio sincero e sentito ringraziamento al vicario generale Eugen Runggaldier e ai suoi assistenti Mario Gretter e Josef Knapp.

Nel contesto di questo convegno pastorale vorrei ringraziare il direttore dell’Ufficio pastorale Reinhard Demetz e tutti gli altri collaboratori della Curia vescovile e della segreteria. Un ringraziamento particolare lo rivolgo già oggi alla signora Christine Tschigg Martini, che lascerà la Segreteria episcopale alla fine dell'anno dopo 33 anni al servizio di tre vescovi. Ringrazio di cuore tutti coloro che sono responsabili della cura pastorale nella parrocchia e nei vari ambiti della pastorale della nostra diocesi. C’è bisogno di tutti noi - e c’è bisogno di noi assieme! Abbiamo bisogno l'uno dell'altro per sostenerci, aiutarci e starci vicini, e abbiamo bisogno di proseguire insieme nella realtà di oggi - sulla SUA parola, nella gioia e nella speranza.

Un grazie anche per la benevolenza che tanti di voi mi hanno espresso e mostrato.

Giulan, De gra, un sentito e cordiale grazie, vergelt´s Gott!