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Andrà tutto nuovo – Verso una pastorale antifragile

Introduzione

  • Papa Francesco ci ricorda che non stiamo vivendo in un’epoca di cambiamenti ma in un cambiamento d’epoca. Se assumiamo questa affermazione in tutta la sua forza dobbiamo accettare umilmente che oggi non disponiamo più delle mappe e dell’equipaggiamento adatto come Chiesa per abitare la realtà. Le nostre mappe e i nostri paradigmi di riferimento non corrispondono più al territorio e il nostro equipaggiamento, strutture organizzative e prassi pastorali risultano spesso disfunzionali e non efficaci per la missione.
  • L’esperienza da cui veniamo, quella della quarantena, ha rappresentato un evento inaspettato, imprevedibile, un’opportunità per rileggere la realtà e ricomprendere la nostra missione nel mondo. Infatti per sua natura l’emergenza fa una cosa sola: non dà lezioni ma fa emergere.
  • È quindi questo un tempo opportuno per discernere: per usare i verbi che Francesco ha proposto al sinodo dei giovani, riconoscere-interpretare-scegliere. Una volta la teologia pastorale usava altri verbi: vedere-giudicare-agire, ma in un cambio d’epoca come abbiamo detto non siamo in grado di vedere perché non abbiamo più le mappe giuste. I nostri occhi non vedono la realtà per quella che è ma filtrata dal paradigma che abbiamo interiorizzato: cioè, i nostri occhi riescono a vedere solo ciò che il cervello permette loro di vedere, che accetta di vedere o sa riconoscere.
  • «Venite in disparte, voi soli, in un luogo deserto, e riposatevi un po'». È attuale questo richiamo biblico. Oltre alla chiamata per la missione il Maestro rivolge una seconda chiamata ai discepoli. L’andare in disparte come spesso Lui stesso faceva, dandosi un tempo per stare con il Padre. Tempo per contemplare e discernere, per operare le scelte e il cambiamento che ci è richiesto oggi di compiere. E per non subire il cambiamento che c’è intorno a noi. Il cambiamento come tratto di fedeltà alla missione.
  • Altrimenti il rischio è quello rappresentato da un’immagine che ora vi mostro. Un’opera d’arte dal titolo ‘la caffettiera del masochista’. Non superare un paradigma non più efficace ci porta a farci del male indipendentemente dagli sforzi, dalla buona volontà, dallo zelo pastorale.

Riconoscere

  • Andiamo allora con Gesù in disparte. Primo verbo del discernimento: RICONOSCERE. Cosa abbiamo visto. Lo sintetizzo in 3 modelli. Faccio una premessa: tutti e tre i modelli che vedremo sono stati giustamente usati in questo tempo, per cui non c'è quello giusto o sbagliato, ma il terzo che presento penso possa dare stimoli maggiori in chiave profetica.
  • ADATTAMENTO. Il motto di riferimento più volte letto e sentito è 'andrà tutto bene'. L'azione di adattamento cerca di mantenere, conservare le cose come erano prima attraverso dei piccoli aggiustamenti. Pensiamo all'impossibilità della liturgia eucaristica. Come sacerdote devo pensare ad un’alternativa. Una reazione necessaria ma pur sempre una reazione. Si è continuato a fare quello che si faceva prima ma in modo diverso. L'idea di fondo è la convinzione che prima o poi questo disagio passerà e andrà tutto bene, tutto come prima. Lasciamo passare questa notte.
  • RESILIENZA. Alcuni esempi di questo modello sono stati: celebrare una messa sopra il tetto della Chiesa per permettere alle persone di partecipare dalle case; una processione issando la statua della Madonna sopra un mezzo o il sacerdote che ha fatto chilometri per portare le palme benedette a tutti in paese. Cosa si intende per resilienza: quando subisco un trauma, uno stress o un urto, attivo dentro di me un'energia che mi permette di resistere e di sopravvivere a questa situazione, per cui attivo qualcosa di bello, positivo, che permette di dare continuità a quello che facevo. Rispetto all'adattamento è un'azione attiva, una resistenza creativa. Il motto qui è 'ce la faremo', 'vinceremo'.
  • Il terzo modello è quello dell'ANTIFRAGILITA'. Non è la negazione della fragilità ma è partire dalle singole fragilità. Riconosco la mia fragilità, riconosciamo le nostre fragilità, di fronte ad un cambiamento. È quanto molti hanno sperimentato nelle proprie comunità ritrovandosi in piccoli gruppi per rinarrare l'esperienza che si stava vivendo. Mettere insieme le singole fragilità per raccontarle. Alcune diocesi italiane hanno cercato di mettersi in ascolto in questo periodo dei fedeli inviando loro dei questionari, lasciando però le persone isolate, lasciando sole le fragilità. Mettere in rete le fragilità non per resistere, tirare avanti, ma per generare una realtà nuova che porterà frutto nel tempo, oltre l’evento imprevisto. Per cui il motto antifragile non è 'andrà tutto bene' o 'ce la faremo', ma 'andrà tutto nuovo'.

Interpretare

  • Modello dell'ADATTAMENTO. SI tratta di una reazione che non produce un apprendimento o una maturazione di nuovi frutti. Si è tappata una falla per non affondare. Non si tratta di un cambiamento profondo ma un aggiustare le cose. Un cambiare per non cambiare, per lasciare le cose come stavano prima. Si resta nel paradigma e si agisce secondo esso. 
  • Modello della RESILIENZA. Rispetto al primo modello si mette in atto un'azione più creativa ma  spesso di carattere istituzionale, gerarchica per dare una risposta forte, per dire che ci siamo. L'attenzione è posta anche qui più sul ‘cosa’ fare e sul ‘come’, ma non va a toccare il modello o paradigma che c'è dietro le azioni, le prassi (il ‘perché’). Non modifica la visione di fondo della realtà. Se prima quella situazione non era generativa e non portava frutti, allora questo cambiamento non la rende più fruttuosa. Se celebro sopra il tetto della Chiesa non vuol dire che questa modalità porta più frutti. Non offre un'esperienza più bella, intensa, significativa. Sono azioni che sono utili per il presente e fanno spesso forza su un atteggiamento eroico (pensiamo agli infermieri, gli insegnanti,...). Si attiva una narrazione epica della realtà. Si forza il paradigma ma per poi rientrarci.
  • Modello ANTIFRAGILE. Il modello antifragile è diverso da quello resiliente perché se subisco uno stress non mi impegno per tornare come prima, cerco di evolvermi, di realizzare un corpo di gruppo migliore, più forte. Non resistere, assorbire l'urto ma riscattarsi, crescere. Un corpo rigido come una spiritualità o postura personale rigida, di fronte ad alcuni urti facilmente si spezza, di spacca in tanti pezzi. Una rete è molto più efficace. Fare rete per dare senso all'esperienza che si sta vivendo.
  • Questo modello ha una ricaduta in termini relazionali, organizzativi e di prassi pastorali.
  • Tutto questo apre il discorso ad una dimensione relazionale fondamentale: una relazionalità è antifragile quando gli spazi autonomi vengono messi in rete, la fragilità di ognuno viene messa in rete con la fragilità degli altri. Ciascuno ha la sua dignità, il suo valore, la sua autonomia, ma questo viene accomunato agli altri. Perciò per creare spazi autonomi creativi in reti antifragili è importante che un leader sappia intessere una narrazione condivisa, una visione condivisa attraverso la quale le persone siano accomunate non tanto dal “cosa fanno” ma dal “perché lo fanno”: questo è ciò che rende uno spazio creativo, adatto ad essere messo in rete.
  • Dal punto di vista organizzativo questo richiede un decentramento dei livelli di decisione. Una condivisione del potere, in un nuovo rapporto tra ministero e ministerialità laicali.
  • Come è possibile tutto questo? Pensiamo all’immagine del frattale: nel campo della biologia il frattale è un organismo che nelle sue parti più piccole racchiude il tutto. Pensate ad una pianta: un albero che ha dei rami, che diventano altri rami, dove le singole parti riproducono il tutto. Il singolo ramo è come se fosse un piccolo albero ecco per cui si può riuscire a creare una struttura antifragile, che di fronte allo stress e all’urto diventa più forte e non più debole, nel momento in cui ogni singola parte che lo compone racchiude in sé il tutto, cioè condivide una visione. In questo caso il leader non è più tanto una figura che elabora individualmente una visione, ma colui che crea quegli spazi all’interno dei quali si rinarra insieme un’esperienza, si condivide insieme, si definisce insieme una visione, che poi ognuno può custodire e fare agire anche in un contesto decentrato. In questa prospettiva ciascuno può operare anche di fronte a qualcosa di non previsto, di incerto, può assumere delle decisioni in linea e dentro la chiave condivisa con tutti gli altri.
  • Perciò un’organizzazione antifragile è un’organizzazione complessa, perché fatta da singole parti che stanno in rete tra loro, ma non complicata: complessa ma non complicata. Dove la struttura gerarchica di connessione viene in un qualche modo superata, dove la verticalità in qualche modo viene integrata ad una orizzontalità.
  • È proprio la parola orizzontale che fa capire che il complesso può non essere complicato. Un’organizzazione si complica non perché si diversifica il suo interno, ma quando aumenta il livello della struttura gerarchica. La complessità, se è mantenuta dentro un piano orizzontale – dove è ovvio che ci sono dei leader e anche una gerarchia di base – non implode perché si evita un’eccessiva strutturazione che di per sé è fragile. Una struttura antifragile ha poca burocrazia. Di fronte ad un cambiamento d’epoca o a dei cambiamenti repentini, di fronte ad un contesto di liquidità la burocrazia non regge, blocca e frena. Inoltre, in questi contesti, è necessaria una bassa specializzazione: più si creano dei contesti di forte specializzazione e più si creano situazioni di fragilità; più bassa è la specializzazione e più c’è trasversalità all’interno di una stessa organizzazione. Così essa diviene antifragile. È ovvio che una tale organizzazione potrebbe apparire più caotica ma ha una potenzialità adeguata al contesto. Ad esempio, è ovvio che un cavallo e più efficiente di un cammello, ma dipende dalla strada che dobbiamo fare perché se devo attraversare un deserto sceglierei sicuramente il cammello.
  • Dal punto di vista delle prassi l’organizzazione antifragile e le relazioni antifragili originano uno stile di sperimentazione, dove l’errore viene considerato come una fonte di informazione, un investimento capace di illuminare la prassi e di evitare errori irreversibili.
  • Per cui il luogo creativo è quel luogo in cui è possibile sbagliare sapendo che si possono fare tante piccole sperimentazioni senza aver la paura di non riuscire ad operare dentro un quadro completo, dentro una sistematicità. Oggi non siamo in questa fase, ma occorre invece fare sperimentazioni per cogliere delle nuove intuizioni, sapendo che, come negli organismi viventi, ci saranno delle esperienze che moriranno perché non riusciranno a trovare vitalità in quel terreno, ma tante altre vivranno e quelle che vivranno porteranno dentro i geni, gli elementi genetici per poter prospettare quel futuro e quelle rotte innovative.
  • È lo stile dei processi invocati dal Papa  non più dei progetti o dei piani pastorali. Il progetto è in funzione degli obiettivi e cerca di soddisfare bisogni riconosciuti. Un processo è in funzione dell’apprendimento e parte non da un bisogno ma da un sogno sulla realtà.
  • Ovviamente un approccio meno sistematico, meno completo, che sa fare uso di elementi di minore efficienza, che sa ritornare al narrare – prima ancora che allo spiegare – e sa usare lo humor, facendo leva sulla dimensione estetica (bellezza) perché come sappiamo il processo di conversione parte dal cuore, prima che dalla mente.

Scegliere

  • Usando la metafora del deserto, come ci si può opporre alla sua avanzata? Di fronte ad un deserto posso reagire con grandi dighe, usare grandi canalizzazioni per l'acqua, o semi sterili di multinazionali, creando maggiore dipendenza dall'esterno, debito e fragilità di quell'eco-sistema. L’agricoltura naturale ha ideato invece una tecnica dove vengono lanciate palline nel deserto. Palline d'argilla dove si mettono tanti semi e microorganismi diversi, un caos naturale. Si lanciano così queste palline in mezzo al deserto. L'argilla trattiene l'acqua interna. Di questi semi su 100 magari attecchiscono solo 40 e 60 falliscono. Quei 40 però iniziano a trattenere acqua del terreno, a fare ombra per quelli che verranno. Anche in alcune parrocchie stiamo facendo questa sperimentazione, lanciare semi d'argilla. La parrocchia non più divisa in operatore Caritas o catechesi o gruppo famiglia. La parrocchia è suddivisa in micro-comunità dove in ognuna ci sono dei giovani, coppie, un anziano... Ogni comunità vive l'annuncio, la liturgia e la carità. Ogni parte ha il tutto e sperimenta quanto ritiene importante da realizzata, per ritrovarsi la domenica convocata insieme alle altre nella grande comunità parrocchiale. E' un cambio di paradigma non un semplice adattamento. Tante piccole palline lanciate per attivare piccole sperimentazioni e processi di cambiamento. Il seme poi opera, attiva un processo lento, piccolo.

Conclusione

  • Gesù scese dalla barca e vide una grande folla. Il luogo era deserto e non avevano da mangiare. Si poteva rimandare tutti a casa (adattamento), si poteva chiedere di resistere mangiando ognuno quello che aveva (resilienza) oppure si poteva mettere in rete i pochi pani e i pochi pesci per sperimentare su quel giardino un evento di resurrezione, una novità.

 

Fabio Carletti